L’impatto dell’industria e della prefabbricazione evoluta sull’architettura a partire dall’esperienza di ReBuild.
Edilizia off-site, ovvero componenti realizzati in fabbrica tramite processi industrializzati, in parte automatizzati, ed assemblati in cantiere con una velocità senza precedenti. È questo il tema del ciclo di conferenze Rebuild di quest’anno: un’inedita esplorazione di un ambito di grande innovazione per il settore dell’edilizia e, potenzialmente, per l’architettura. Industrializzazione e automazione, progettazione digitale e macchine che costruiscono parti complesse  di edifici, se non di edifici interi, sono temi non scontati, soprattutto dopo un trentennio, fortunatamente non ancora tramontato, di Regionalismo Critico: termine con il quale  Kenneth Frampton indicava una modernità che - dopo decenni di fredda ed astratta “industria” - finalmente riscopriva le radici, i luoghi, il contesto, i materiali e la tecnologia locale. Ma se da un lato si riscopriva un’identità dei luoghi rinnegata per anni dall’altro, già nel 1995, lo stesso Frampton in Studies in Tectonic Culture documentava la forte incidenza sul costo complessivo di un edificio di impianti e componenti, evidenziando una tendenza pressoché inarrestabile. Malgrado l’evoluzione degli ultimi anni, almeno per il momento, costruire interi edifici tramite tecniche robotiche o di stampa 3D è possibile solo in teoria. Tuttavia, è sempre più comune la rapidissima prototipazione e realizzazione di parti di edifici e di componenti, talvolta di grandi dimensioni, su misura e secondo disegni molto complessi. Talvolta questi elementi, come in molte opere di Gramazio&Kohler, vengono dichiarati fino a diventare veri e propri elementi decorativi, spesso di ispirazione biomorfica, completamente costruiti da macchine e fortemente caratterizzanti l’architettura: un procedimento che sembra riprodurre il ruolo dell’industria agli albori del Movimento Moderno.  Eugene Viollet Le Duc - architetto peraltro rivelatosi molto influente su proto-modernisti come Louis Sullivan e Frank Lloyd Wright - come buona parte degli ingegneri di fine Ottocento, utilizzavano componenti prodotte dall’industria per costruire opere senza precedenti e che avrebbero avuto un’influenza determinante sugli sviluppi futuri. Fino a che punto dunque la capacità attuale di produzione su base industriale, se non addirittura automatizzata, può avere un’influenza sull’architettura? In questo numero di IoArch abbiamo ricercato una risposta grazie ai contributi di un grande innovatore nel campo del progetto e della fabbricazione digitale come NaderTehrani, di ricercatori nella robotica applicata all’architettura come Fabio Gramazio e MatthiasKohler e nelle risposte di alcuni attenti e significativi esponenti dell’architettura italiana di questi anni.
Filippo Brunelleschi aveva progettato macchine e sistemi di costruzione senza precedenti per realizzare un’architettura mai vista prima. Oppure fu la capacità di concepire e realizzare macchine del tutto nuove che aveva reso possibile una nuova architettura? Ovviamente la risposta non può essere confinata alla semplice risoluzione di questioni tecniche: quello che conta è la capacità di cogliere la realtà che ci circonda e proporne una completamente nuova …ricordando che, come qualsiasi albero, per crescere, abbiamo bisogno di buone radici.

Carlo Ezechieli

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