Il ruolo dell’architettura in un
ambiente che può essere non solo costruito, ma ormai anche riprogrammato nei
suoi principi e nelle sue funzioni di base.
L’antinomia tra natura ed artificio, e
spesso, la lotta contro una natura avversa, è stata fin dalle origini alla base
dell’idea stessa di architettura. Anche se col passare del tempo le cose
cambiano e con queste anche i concetti e le categorie. L’architettura viene spesso
definita come un magnifico artificio, che trasforma e controlla il mondo
naturale, e non solo, adattandolo ad esigenze specifiche. Esistono tuttavia
molte forme di modificazione dell’ambiente realizzate ad arte, di origine non
antropica e pertanto normalmente assimilate alla “natura”: dalle più elementari
come i nidi, alle più complesse come i termitai o le dighe dei castori.
Malgrado siano spesso liquidate come la manifestazione di automatismi, neanche
troppo complessi, scaturiti per puro caso da millenni di evoluzione (come se il
genere umano fosse il frutto di chissà quale creazione superiore) l’idea di un
artificio “non antropico” mette in evidenza i presupposti puramente normativi
di una distinzione in realtà del tutto fluida, se non addirittura scivolosa. Il
progetto di una natura riprodotta ad arte, come per i parchi di Frederick L.
Olmsted, ad esempio, era una concezione dell’Ottocento che emergeva da città
industriali sempre più opprimenti dove l’invenzione, di origine del tutto
culturale, di una “natura selvaggia”, ma benevola (alla quale, peraltro lo
stesso Olmsted ha contribuito in modo determinante), si imponeva come vera e
propria necessità. Oggi però la situazione, senza precedenti, è quella in cui
il genere umano, non solo può modificare la natura con i mezzi tradizionali,
come nell’Ottocento, ma anche “sintetizzarla” ridefinendone tecnologicamente
funzioni e programmi, più o meno come si farebbe con un computer. Se di fronte
ad un mondo super-affollato, iper-antropizzato ed ormai soffocante, la logica
della contrapposizione e della totale volontà di supremazia sull’ambiente
- emersa con l’invenzione
dell’agricoltura e delle città - tende a vacillare, come trovare un nuovo
equilibrio? La risposta sarà rivestire gli edifici di piante, di fatto ibridi
organico-meccanici, nell’intento di ricomporre il sentimento per qualcosa – il
rapporto con altre forme di vita - che si sta perdendo completamente. Ci si
orienterà verso la consapevolezza e controllata convivenza con la forza degli
elementi, come in alcune recenti opere di Turenscape, orientate verso
l’adattabilità e la resilienza ambientale delle strutture insediative. O si
prenderà atto di una capacità di riprogettazione tecnologica totale, e forse
fatale, tale da rendere possibili ambienti, o perfino edifici che, grazie
all’ingegnerizzazione di forme di vita proto-cellulari, si autoriparano, come
nei progetti di Rachel Armstrong, o che crescono, come le dune di Magnus
Larsson. A questioni nuove più che risposte, servono proposte capaci di interpretare
correttamente il contesto, ed è appunto questo il campo operativo
dell’architettura.
Carlo Ezechieli
Carlo Ezechieli