La nostra società, e di conseguenza l’architettura, si ritrova oggi immersa in un universodigitale. Una situazione inedita dove una sequenza di schermi interviene come sia come interfaccia che come barriera. Quali sono le ricadute sulla qualità architettonica degli spazi? 


Viviamo in un mondo dove la quantità, la diffusione e la gestione di dati è ormai di importanza primaria. Un vero e proprio universo digitale capace di impostare abitudini, interferire relazioni, influenzare opinioni, condizionare comportamenti. Ma quanto interviene questa condizione sulla qualità architettonica degli spazi? Era una domanda già presente in testi come“City of Bits” (1996) di William J. Mitchell, un tempo molto influenti ma che oggi - a distanza di anni dall’entusiasmo carico di una buona dose di ingenuità di quel periodo - possiamo considerare con più maturità. Attualmente vediamo l’architettura, ultima frontiera della fisicità, oscillare tra il ritorno ai valori e agli schemi tradizionali ed il tentativo, finora privo di forme di espressione credibili e ripetibili, di interpretare una situazione ancora per buona parte inedita. Da un lato l’architettura si ritrova direttamente immersa in un contesto di “ubiquità operativa” che, basata su una sequenza di schermi, permette di svolgere qualsiasi tipo di attività o funzione in qualsiasi luogo ed in qualsiasi momento. Un presupposto che sembra in realtà integrare, più che sostituire, i luoghi e gli spazi che un tempo erano il contesto univoco di aggregazione ed interazione sociale. Si può lavorare a casa, ascoltare musica in treno, pensare e scrivere articoli sulla panchina del parco. L’architettura, a qualsiasi scala, dalla casa alla stazione ferroviaria, più che modificare le proprie qualità, tende a diventare un contenitore neutrale, versatile, ed almeno in parte, sempre più indifferente all’utilizzo primario. Fondamentalmente un “supporto” per gli onnipresenti e sempre più giganteschi schermi, che soprattutto nelle società post-industriali dove è inevitabile costruire sul costruito, conquistano un primato quasi assoluto. Da un altro punto di vista si pone invece il tema della qualità dello spazio fisico ed architettonico dove persiste un vero e proprio abisso tra la capacità, formidabile, di generare strutture al computer e costruirle veramente. Se il progetto di strutture parametriche - tanto complesse e funzionali quanto le forme straordinarie messe a punto in milioni di anni di evoluzione naturale - è ormai molto facilitato, la loro realizzazione è tuttora estremamente costosa e quasi impossibile con tecniche costruttive convenzionali. Le stesse forme che vengono generate in modo pressoché autonomo all’interno dei computer hanno una sola, credibile, possibilità di realizzazione: essere realizzate dalle macchine stesse. Sono questi due versanti che gravitano intorno al tema della realtà digitale e che, in questo numero di IoArch, vengono toccati nelle interviste ad autori completamente diversi:il premiato ed ormai celebre studio di architettura OBR, e Maxim Zhestkov, probabilmente uno dei più interessanti media artist, con forti riferimenti all’architettura, di questi anni.

Carlo Ezechieli

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