Il fascino dell’architettura Soft-Tech: un percorso alla scoperta della saggezza e della consapevolezza nel rapporto con il luogo, tuttora presente in molte culture tradizionali e indigene.  


La nostra instabile e tumultuosa epoca è caratterizzata da molti dubbi e dalla pressoché totale assenza di certezze, tranne una: la fiducia incrollabile nella tecnologia. Questo termine, derivato dal greco antico e per secoli non particolarmente in voga, nell’odierno mondo globalizzato e di impronta anglosassone, ha conosciuto una vera e propria apoteosi. Del resto la rivoluzione industriale, dalla quale è iniziato il cammino che ci ha portato fin qui riusciva, proprio grazie alla tecnologia, a rendere possibile l’accumulo di patrimoni enormi, anche in assenza di grandi proprietà terriere. La tecnologia pone le basi per il progresso, non c’è dubbio, e possibilmente per un futuro sempre migliore. È questo il motivo per cui oggi, di fronte ad ogni problema - dalla fame nel mondo alla sesta estinzione globale – sempre invochiamo la tecnologia che, insieme al potere concreto dell’industria, troverà una soluzione.  Il discorso funziona alla perfezione finché si tratta di elettronica e di internet, ma quando si toccano i temi ambientali - oggi così al centro del dibattito in architettura - il discorso cambia. Il volano economico-tecnologico non può rallentare. Deve costantemente mettere in pista nuove soluzioni, capaci di coinvolgere l‘industria. Ma queste sempre soffriranno di un problema fondamentale, spesso all’origine dell’allontanamento dagli obiettivi: la sostanziale mancanza di un principio ideativo capace di cogliere la complessità e di tradurla in una sintesi progettuale. Guardando al passato remoto è incredibile scoprire un numero infinito di forme di insediamento e di trasformazione del paesaggio che hanno resistito alla prova del tempo, anche per migliaia di anni. Sono realizzate con pochi mezzi, secondo principi rigorosamente Soft-Tech e rivelano un incredibile ingegno, saggezza e bellezza. La riscoperta del valore dell’architettura vernacolare, spesso nelle sue forme più arcaiche, era del resto già partita tempo fa con il lavoro celebre, anche se all’inizio aspramente criticato, Architettura senza architetti, di Bernard Rudofsky del 1964. Anche l’ibrido saggistico/manualistico Progettare con il clima dei fratelli Olgyay, anticipava molti dei temi ripresi, tra gli anni 1960 e 1970, dal Regionalismo Critico. Oggi una corrente più radicale e di grande interesse (come nel lavoro di Julia Watson, in questo numero) si inserisce in questo filone, ma si spinge ancora di più alle origini, alle radici, alla ricerca di esempi e di principi, basati sulla profonda conoscenza dell’ambiente propria delle culture indigene, e questo malgrado la loro crescente marginalizzazione. Tradizioni molto antiche, appartenenti a società che hanno vissuto, se non talvolta prosperato, molto più a lungo di tanti imperi.

Carlo Ezechieli

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