L’attuale, vertiginosa, crescita delle strutture legate alla logistica ed il ruolo potenziale dell’architettura 
 


Terminal Architecture
era il titolo di un libro, pubblicato nel 1998, del critico di architettura Martin Pawley, autorevole editorialista per il Guardian e l’Observer, dove terminal, stava ad indicare sia uno stadio terminale dell’architettura, sia l’architettura dei nodi di reti infrastrutturali estese, complesse, e tecnologicamente avanzate. Nel libro l’autore, scagliandosi contro il patetico camouflage della conservazione dei centri storici, esaltava la traduzione edificata dell’allora nascente età elettronica – i data center, gli edifici-macchina, i big shed della logistica – i terminali, appunto, di un mondo sempre più dipendente da reti di informazione e di connessione. Secondo Pawley questi ultimi rappresentavano l’ambito che, con una opportuna traslazione di valori, avrebbe portato per l’architettura una reale ondata di innovazione. Oggi, a più di vent’anni di distanza possiamo constatare chel’unica vera ondata è la crescente pressione immobiliare sul paesaggio: un fenomeno che sta letteralmente passando sotto il naso degli architetti. Che l’intera struttura del commercio e dell’industria si è profondamente modificata, ed è oggi governata da una sovrastruttura elettronica e immateriale che, quando tocca il suolo, è capace di danni ingenti. Si tratta, almeno in questa fase, di un sistema fondamentalmente alieno, privo di capacità e volontà di contatto con l’intorno e rispetto al quale i pensieri espressi da Pawley vent’anni fa rivelano un’ingenuità abissale. Si parla di progetto, mentre su scala colossale, si sviluppano poco più che procedure. Si parla di sostenibilità, mentre si innescano bombe a orologeria. E in tanto l’architettura, la grande assente, rimane l’unica disciplina ancora capace di una visione d’insieme e forse l’unica soluzione possibile. 

Carlo Ezechieli

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